Riflessioni su teatro, cinema e follia
di A. Carotenuto
Sembra che nel teatro, o nel cinema, prevalga una dimensione su tutte: la simulazione. Il produrre, cioè, forme verosimili o possibili, darvi corpo fino a renderle reali in un contesto ben circoscritto. E' importante il contesto, così come è importante l'aspettativa che esso stesso provoca negli individui, nella definizione della verosimiglianze. Perché ciò che appare possibile, accettabile, giustificabile su un palcoscenico, diventa inaccettabile e folle nella vita reale, tra le aspettative di ogni giorno. Una medesima simulazione, cioè, può essere annoverata come arte o venire bollata come follia in base alla discriminante della pertinenza al contesto.
La follia, di per sé, è qualcosa che esce dalle aspettative ordinari,e che non segue i canoni della desiderabilità sociale, ma perturba e sorprende. Inserendo anche, perché no, dei nuovi punti di vista in un sistema ormai rigido, ma proprio per questo, più vulnerabile e chiuso.
La follia è, se vogliamo, una visione del mondo, che nel mondo non trova conferme. E ' un sentire tutto individuale, che associa immagini e spiegazioni, eventi e cause in un modo del tutto singolare, all'interno del quale è la significatività soggettiva ad avere la meglio sulle possibilità e opportunità reali. Follia è credere nel mondo così come lo si interpreta individualmente, credere in un proprio mondo nel quale le cose si associano secondo un ordine simbolico di significato tutto arbitrario e intessuto di elementi e odori dell'inconscio, dei sapori del desiderio, della consistenza delle paure più profonde e arcaiche.
Follia è non piegarsi e non accettare le consuete norme interpretative. Follia è non ricreare il mondo, ma crearlo. Come fosse per la prima volta.
Arte e teatro, poesia e scrittura, cinema e musica, sono modalità intermedie attraverso le quali il mondo viene ricreato, ma con una finalità, con una motivazione, con un "alibi", che allontani lo spettro dell'incoerenza. Assistere ad un monologo in teatro è cosa altra dall'assecondare il soliloquio di uno psicotico. Ma è cosa altra solo nella misura in cui è il fondale ad essere differente, è lo sguardo dell'altro a conferivi un significato dissimile a seconda della propria aspettativa. E ogni aspettativa si fonda su una serie di esperienze pregresse, che fanno si che un palcoscenico sia il luogo più appropriato per fingere di essere re.
Vi è poi, l'altro aspetto, quello della convinzione: l'attore sa di non essere re. E lo psicotico, nel suo delirio, fino a che punto non ne è consapevole? E l'attore, che 'entra' nel personaggio, fino a quali profondità di identificazione vive il suo ruolo?
Ma guardiamo la questione ancora più dall'alto. Non potrebbero essere il teatro, o il cinema, o l'arte essi stessi "una follia", in quanto portatori di visioni univoche e totalmente soggettive della realtà? In quanto monadi che si allontanano dal quotidiano, dalle esperienze reali e, pur nutrendosi di esse, cominciano a vivere e a gravitare in un'orbita tutta loro?
Non sottovalutarei la constatazione che molti artisti hanno tentato, e attuato, un connubio così forte tra arte e vita, da sovrapporre le due dimensioni. E vivere la vita secondo la prospettiva dell'arte è operazione di per sé arbitraria, parziale, in qualche modo "folle". E', cioè, un sostituire una parte con il tutto, fondendo persona a personaggio, ruolo ed esperienza, copione ed esistenza. Senza contare poi che recitare è dare ai mille personaggi che albergano in ognuno di noi, e dargli una consistenza totalizzante un pò a turno, proprio come fanno gli schizofrenici. E' ancora un sostituire, a tratti, la parte con il tutto, il credere fermamente di essere qualcosa, tralasciando tutto il resto: chi si è stati e chi potrebbe diventare. E' vivere il presente allontanandosi dalle altre dimensioni temporali, in una dinamica, ancora, delirante.
Ed è per questo che “arte” e “follia” sono elementi molto vicini tra loro. Vicini non soltanto perché, come Freud aveva evidenziato, i meccanismi sottesi ad alcune forme nevrotiche potessero considerarsi equivalenti a quelli che generano le manifestazioni più eclatanti di talento creativo, ma anche e soprattutto perché spesso si accompagnano nella loro urgenza espressiva. Non a caso Jung ha sottolineato il carattere simbolico e terapeutico di ogni manifestazione creativa dell’animo umano.
Tanto più che molte delle più grandi menti della storia sembra abbiano sofferto di una qualche patologia: Rilke di schizofrenia, Van Gogh di presunta sindrome maniaco-depressiva, Kafka di nevrosi ossessiva, Schopenhauer di manie di persecuzione, Beethoven di nevrosi depressiva, Rimbaud di allucinazioni.
La creatività umana affonda le sue radici nel territorio dell’inconscio, anzi attraverso le sue forme simboliche riscatta la sua autonomia e la sua forza. E’ in questa ottica che Neumann poteva affermare che l’artista si pone tra il nevrotico e il sognatore; perché la qualità e l’intensità dell’abbandono del razionale in favore della fantasia mutano di tono.
Ma, attenzione: con l’artista siamo su un continuum esistenziale che ci conduce fino alla psicopatologia nevrotica. Quando l’inconscio prende il sopravvento, infatti, esso può manifestarsi attraverso varie modalità esplicative: può convertirsi in sintomi che inficiano il normale comportamento quotidiano relazionale, creando dei collegamenti arbitrari e delle associazioni libere tra psichico e fisico, e ci troviamo nel regno della nevrosi, ma può anche manifestarsi attraverso immagini e vissuti, e siamo nel campo della creatività. Jung, ma ancor più approfonditamente Rank, sostenevano che proprio la creazione artistica nascesse dalle zone psicologiche complessuali, che le sue specifiche immagini non fossero altro che simboli derivanti da costellazioni inconsce attraverso cui gli affetti si sarebbero collegati tra loro su un livello inconscio individuale e collettivo.
Questa costellazione inconscia, tuttavia, che deriva da un conflitto individuale specifico, va ad innestarsi in un terreno inconscio collettivo. Da questo sostrato comune, che Jung ha postulato essere un patrimonio condiviso dell’umanità intera, emergono le immagini archetipiche delle quali l’arte si nutre. L’espressione creativa, dunque, può essere considerata come una modalità terapeutica attraverso la quale le zone complessuali trovano espressione, mantenendo gran parte del loro linguaggio inconscio. E’ l’anima tormentata dell’uomo, dunque, che si esprime attraverso la creatività e, attraverso essa, riesce a gestirsi e monitorarsi.
In altri termini, l’arte diviene un ausilio per ripristinare quotidianamente un proprio equilibrio psicologico. E’ per questo che accanto alle loro opere troviamo, nelle biografie dei più grandi uomini della storia, un sottosuolo di quella freudiana “psicopatologia della vita quotidiana” che emerge inevitabilmente, quale misteriosa testimone di tutto il loro travaglio interiore.
Van Gogh scriveva ripetutamente al fratello Theo, compagno epistolare della sua follia e della sua lucidità, che l’arte era l’unica risorsa che gli consentisse di sopportare la sua travagliosa esistenza. E la follia, le mutilazioni, il suicidio sono testimonianze forti della sua volontà di vivere, così come lo è la sua arte fatta di colori puri, luminosi, vigorosi.
La potenza tumultuosa del genio si manifesta attraverso le sue opere come attraverso la sua follia.
Essere creativi è, in sostanza, un modo di osservare la realtà, di guardare ad essa, di analizzarla e ridefinirla. Ma non soltanto, nel ricreare si introduce una nuova variabile: la propria interiorità. In questo frangente interpretativo l’artista strizza l’occhio al nevrotico: introduce i propri parametri inconsci nella valutazione e nella gestione del reale. E lo psicotico, ancor più, è molto vicino a quanti nell’impeto del proprio ‘daimon’ interiore che preme per esprimersi, varcano la soglia tra la propria fantasia e il reale, reputando la prima più vera del secondo.
Attingono, in sostanza, a quanto c'è d più arcaico del nostro essere. Il sentire immediato e impetuoso, le immagini dell'inconscio, il mondo dei sensi. Un linguaggio, cioè, che non si nutre soltanto di razionalità, ma anche di sensazioni ed impressioni. E questo modo di essere, che strizza l'occhio più a quella che ingenuamente definiamo follia, ci riporta alla mente anche la visione di teatro e poesia "non pervertita" che proclamava Artaud. Che auspicava per il teatro un ritorno - o meglio, una riscoperta - del potere dei sensi, alla fascinazione del magico e dell'irrazionale, all'immediatezza e all'efficacia comunicativa delle immagini, della completezza della scena. La riscoperta, cioè, di un linguaggio "materiale e solido", fatto di tutto ciò che possa materialmente esprimersi e presentarsi sulla scena, colpendo i sensi.
E il linguaggio dei sensi, dei simboli (tanto cari ad Artaud nella sua ammirazione del teatro balinese) sono propri dell'inconscio, degli strati più arcaici della psiche. Quelli della follia. Ma anche dell'arte e del teatro.
Chiuderei, alla luce di questa constatazione, con una provocazione di Artaud, ma nella quale credo possa rintracciarsi tutto il nesso tra teatro, arte e follia.
"E' bene che talune nostre eccessive comodità scompaiano, che certe forme siano dimenticate: allora la cultura fuori dalla spazio e dal tempo, racchiusa nella nostra capacità emotiva riapparirà con accresciuto vigore.
E' dunque giusto che ogni tanto avvengano cataclismi per incitarci a ritornare alla natura, o, in altre parole, a ritrovare la vita" (Artaud, 1964, 130).
(Relazione tenuta dal prof. A. Carotenuto nel Modulo Cinema Teatro & Follia del Convegno Follia dell'Arte & Arte della Follia, Hypnodrama.it - SIPs, Roma, Palazzo Barberini, il 5-6 dicembre 2003, ultimo contributo del Maestro alla nostra associazione)